Ha fatto molto discutere, nei giorni scorsi, la notizia riportata da varie testate giornalistiche che hanno riferito, in estrema sintesi, la pronuncia del GUP di Milano sul caso di una denuncia-querela per un fatto risalente al marzo 2020, nei confronti di un cittadino che nell’autocertificazione avrebbe rilasciato delle dichiarazioni accertate come false dalla PG in sede di controllo successivo.
Ad onor del vero, non si tratta della prima sentenza che va in questa direzione. Il 27 gennaio scorso, il Giudice dott. Dario De Luca, gip del tribunale di Reggio Emilia, aveva prosciolto una coppia fermata a un posto di blocco (sempre lo scorso marzo 2020) la quale esibiva un’autocertificazione accertata come falsa dalle forze dell’ordine preposte ai controlli sulla veridicità delle dichiarazioni rilasciate. La sentenza, peraltro, è diventata definitiva, non essendo stato presentato appello dal PM.
Una raccomandazione: la prima cosa da NON fare quando si analizza uno o più casi concreti che sono oggetto di indagine, è quella di cadere nella trappola “di tutta l’erba un fascio”, ovvero generalizzare.
Ma procediamo con ordine.
LE FONTI NORMATIVE:
- La normativa che “condanna”, perlomeno sulla carta, il fatto di rendere delle dichiarazioni che non corrispondono al vero in un atto pubblico, trova dimora in due distinti precetti: l’art. 76 del DPR n. 445/2000 e l’art. 483 c.p. rubricato “falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”.
- La fonte normativa, d’altra parte, che imponeva (e impone ancora oggi) nei casi di cui ci stiamo occupando, ai cittadini residenti in aree considerate ad alto rischio epidemiologico, di giustificare i propri spostamenti, dettando peraltro i motivi che rendevano “legittimi” tali spostamenti, è il DPCM 8/03/2020.
- l’art. 13 della nostra Carta Costituzionale, sancendo che “la libertà personale è inviolabile”, al comma III specifica: “In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla Legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro 48 ore all’AG e se questa non li convalida nelle successive 48 ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”.
- L’art. 16 Cost. stabilisce che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale salvo le limitazioni che la Legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e di sicurezza”.
IL COROLLARIO LOGICO-GIURIDICO DEI GIUDICI:
Le due pronunce sopra citate, quella del GUP di Milano e quella del Tribunale di Reggio Emilia, divergono parzialmente riguardo le motivazioni, per arrivare in ogni caso al medesimo risultato: Proscioglimento perché il fatto non costituisce reato.
Vediamo perché.
Riguardo alla legittimità di quanto imposto dal DPCM citato, ancor prima di discutere sulla configurabilità della condotta penale ascritta dai PM circa il reato di falso, il giudice reggiano parte dal dettato costituzionale.
L’art. 13 Cost. stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su “…atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”; prima conseguenza di tale principio costituzionale, dunque, è che un DPCM non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge; in secondo luogo, neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge, qual è il decreto-legge) potrebbe prevedere in via generale e astratta, nel nostro ordinamento, l’obbligo della permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, posto che l’art. 13 Cost. postula una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, implicando necessariamente un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto.
In conclusione, l’obbligo previsto dal DPCM nella parte in cui impone ai cittadini la compilazione dell’autocertificazione per giustificare i propri spostamenti, deve considerarsi illegittimo poiché proveniente da una fonte di rango secondario in contrasto con quanto stabilito dall’art. 13 della Costituzione.
Quanto, invece, alla configurabilità della fattispecie di reato di cui all’art. 483 c.p., il ragionamento può riassumersi in questi termini:
La dichiarazione mendace contenuta nell’autocertificazione, perché sia rilevante ai fini penali, deve riferirsi ad un obbligo contenuto in un atto legittimo, capace di incidere sulla situazione giuridica che viene in rilievo. In caso contrario, si tratta di un falso cosiddetto “inutile”, che escluderebbe l’antigiuridicità in concreto della condotta penale come elemento oggettivo imprescindibile del reato.
CONCLUSIONI
Alla luce, pertanto, delle prime sentenze in ordine ai procedimenti penali instaurati in seguito alla violazione delle norme contenute nei DPCM, ed in particolare con riguardo alla punibilità della condotta di colui che dichiari il falso nelle autocertificazioni, ci troviamo di fronte al nascere di un nuovo orientamento giurisprudenziale, per il momento limitato alle pronunce dei Tribunali di primo grado.
La sensazione è che il proliferare di provvedimenti d’urgenza contenuti, di volta in volta, nei decreti del Presedente del Consiglio dei Ministri, che stabiliscono di fatto restrizioni di diritti costituzionalmente garantiti (libertà personale, libertà di circolazione, libertà di iniziativa economica, etc.), non siano dotati della sufficiente forza precettiva e che, pertanto, si infrangano contro il muro del garantismo, rendendo sempre più confusi i confini tra lecito ed illecito.
L’auspicio è che tale deficienza normativa sia risolta, a monte, dal Legislatore senza che sia demandato al potere giudiziario di colmarla.
Avv. Maria Elena Farina